martedì 3 novembre 2009

IL SORRISO NEL PIATTO

L'importanza di un'alimentazione sana ed equilibrata per il nostro benessere fisico è cosa ormai risaputa. Una nuova ricerca inglese, cui i media locali e in primis la BBC hanno dato ampio rilievo, ha ultimamente dimostrato quanto le nostre abitudini alimentari influiscano anche sul nostro benessere psichico. Dai risultati di questo studio è emerso che chi seguiva una dieta a base di cibi complessi (ovvero prodotti industriali e cibi confezionati, ricchi di grassi e zuccheri idrogenati, addittivi, aromi, nonché cibi precotti, fast food, ecc.) avesse quasi il 60% di rischio in più di ammalarsi di depressione rispetto a chi invece seguiva una dieta prevalentemente a base di frutta, verdura e pesce. In Inghilterra i problemi legati all'obesità e alla malnutrizione dovuta alla sempre più ampia diffusione del così detto junk food (letteralmente cibo-spazzatura), ultra-pubblicizzato, disponibile ovunque e a prezzi bassi destano molte preoccupazioni soprattutto per la salute delle giovani generazioni. Ora pare ci sia la prova che la nostra cara vecchia dieta mediterranea, incentrata sul consumo di frutta e verdura fresche, non solo ci consenta di essere più sani e in forma, ma anche più felici. Perciò...buon appetito!

giovedì 1 ottobre 2009

IL BENESSERE AI TEMPI DELLA CRISI

Siamo in crisi, crisi globale, crisi economica, non sentiamo parlare d'altro e il senso comune ci fa pensare che alla recessione si accompagni anche un aumentato malessere, ma in tempi di crisi si sta davvero peggio? Uno studio condotto in proposito dall'Università del Michigan e recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) sembra dimostrare il contrario. Prendendo in esame il ventennio della Grande Depressione, ovvero l'arco di tempo che va dal 1920 al 1940, il periodo più cupo della storia americana che vide il crollo di Wall Street e una disoccupazione endemica, i ricercatori hanno rilevato una significativa diminuzione dell'incidenza di tumori e un allungamento della vita media di ben sei anni. E' vero che in quel periodo si registrarono anche molti casi di suicidi di persone che avevano perso tutto nel crack finanziario del '29, ma, in generale, quella recessione ebbe effetti positivi sulla salute. Le difficoltà economiche, infatti, eliminano gli eccessi alimentari e riducono significativamente il consumo di alcol e tabacco, inducendo uno stile di vita più salutare e morigerato, inoltre, i ritmi frenetici del lavoro durante i periodi di prosperità economica sono molto stressanti e la salute psico-fisica non può che risentirne. Non solo, è scientificamente provato che anche gli animali se digiuni o nutriti poco siano più reattivi e intelligenti e vivano più a lungo. Che sia la riprova della decrescita felice? Di certo le crisi per il loro potere destrutturante rappresentano, sia a livello sociale che personale, una grande occasione di cambiamento ed evoluzione, in cui occorre fare appello alle proprie risorse per trovare un adattamento migliore alle mutate condizioni di vita ed è questa la sfida che ci aspetta.

martedì 29 settembre 2009

COME COMPORTARSI CON LE PERSONE SORDE?

Ecco un elenco di suggerimenti per facilitare i rapporti con persone sorde o deboli d'udito:
  • oggi i sordi non sono più necessariamente anche muti, tenete presente che i "sordoparlanti" possono imparare anche le lingue straniere
  • il vocabolario dei sordoparlanti è limitato, quindi non usate sottigliezze linguistiche per non metterli in difficoltà
  • preferite concetti chiari e frasi semplici
  • non parlate mai in dialetto
  • tenete presente che i baffi o il tenere la mano davanti alla bocca quando si parla ostacolano la lettura del labiale
  • non parlate a voce alta; è sufficiente parlare in modo chiaro, senza scandire le parole in maniera esagerata
  • non parlate troppo in fretta, né troppo lentamente
  • la mimica facciale è un aiuto alla comprensione, ma esagerarla è inutile e ridicolo
  • in presenza di un sordo, non parlate di lui con altri, potrebbe fraintendere
  • cercate di farlo partecipare alle conversazioni in gruppo
  • la sordità è una menomazione invisibile e i sordi cercano di nasconderla, magari facendo un cenno di assenso anche se non hanno compreso ciò che è stato detto, perciò abbiate cura voi di accertarvi che la persona sorda abbia effettivamente capito
  • ricordate che i sordi non possono seguire contemporaneamente il movimento del labiale e l'esecuzione di un'azione, perciò prima fate e poi spiegate
  • incoraggiate chi sente poco ad avvalersi di ogni ausilio disponibile (apparecchi acustici, logopedia, terapie d'ascolto)
  • chi non sente deve concentrarsi di più a seguire il filo del discorso e tende a stancarsi se la conversazione è lunga e ininterrotta, meglio fare delle pause
  • sul lavoro abbiate cura che il sordo riceva correttamente tutte le informazioni necessarie
  • le persone sorde parlano senza modulare la voce e mostrarsi infastiditi o, peggio, divertiti dal loro tono insolito è un gesto di grande insensibilità e mancanza di rispetto
  • se incontrate o conoscete una persona sorda, fermatevi a parlare con lei, spesso per il reciproco disagio davanti alle difficoltà comunicative, udenti e non tendono a evitare di parlarsi
  • tenete presente che le persone sorde vedono e avvertono con straordinaria sensibilità ciò che non sentono
  • ricordate che, proprio come per le persone udenti, anche per i sordi vale più un sorriso o un gesto amichevole di mille parole
  • ognuno di noi ha bisogno di contatto umano e della possibilità di parlare ed esprimere i propri sentimenti; essere socievoli e disponibili con i sordi aiuta a evitare che si isolino

COME COMPORTARSI CON I DISABILI MOTORI?

Ecco un elenco di suggerimenti per facilitare i rapporti con persone aventi una qualche menomazione fisica:
  • in generale, più si è spontanei e più tutto diventa semplice
  • trattate la persona in carrozzella da pari a pari
  • non fare mai nulla senza prima chiedere al disabile cosa desidera
  • chi ha menomazioni alle mani ha bisogno di aiuto solo in azioni particolari come stappare una bottiglia o aprire una lattina
  • evitare di rivolgersi a un disabile motorio con eccessiva familiarità e dandogli del tu anche se adulto, insomma, non trattatelo come un bambino (ricordate che il più grande scienziato al mondo è tetraplegico!)
  • evitare di parlare del disabile a terzi in sua presenza, anziché rivolgersi direttamente a lui/lei
  • ignorare il disabile è un gesto incivile che ferisce profondamente chi lo subisce
  • evitare di rivolgersi principalmente o solo al suo accompagnatore
  • se accompagnate un disabile, evitate atteggiamenti troppo protettivi
  • i veicoli parcheggiati sui marciapiedi o in prossimità degli scivoli rappresentano un pericoloso ostacolo, se non addirittura una barriera per i disabili motori
  • se parlate a lungo con una persona in carrozzina è preferibile che vi sediate alla sua stessa altezza
  • a una persona che necessita del bastone o delle stampelle per camminare offrite il vostro aiuto solo se richiesto o in caso di evidente bisogno
  • dire sempre "lascia, faccio io" o porgere di continuo la mano fa sentire la persona più limitata di quanto non sia in realtà
  • ricordate che le persone disabili hanno molte più risorse e capacità di quante siamo abitualmente disposti a credere
  • non stupitevi se una persona in sedia a rotelle vive sola, grazie a veicoli adattati e ad altri accorgimenti abitativi, oggi moltissimi disabili motori sono perfettamente indipendenti
  • per la strada spingete la carrozzina con prudenza per evitare di urtare altre persone, il disabile ne sarebbe mortificato
  • il bastone, le stampelle o la carrozzina sono vissuti dal disabile come un prolungamento del sé, è bene quindi maneggiarli e riporli con la massima cura
  • nell'attraversare una strada trafficata e nel superare i gradini una persona su sedia a rotelle si sente completamente nelle mani dell'accompagnatore: una discesa rapida diventa un incubo

COME COMPORTARSI CON UN CIECO?

Ecco un elenco di suggerimenti per facilitare i rapporti con una persona cieca o ipovedente:
  • salutatelo chiamandolo per nome e dicendogli chi siete
  • i ciechi riconoscono le persone dalla voce e "vedono" con il tatto, se volete che sappia che faccia avete, lasciatevi toccare
  • ricordate che non vede gesti e sorrisi e che dovete esprimervi a parole, spiegando le comunicazioni implicite
  • non prendete un cieco per un braccio per guidarlo, piuttosto offritegli il vostro
  • avvisatelo quando si sta per attraversare la strada e in prossimità di gradini e marciapiedi
  • non allontanatevi mai senza preavviso o un saluto
  • avvicinandovi a un cieco, fatevi notare per tempo
  • nel dargli qualcosa, chiamatelo per nome e toccatelo leggermente
  • non seguitelo con l'apprensione di aiutarlo a tutti i costi
  • per offrirgli un posto a sedere, è sufficiente fargli poggiare la mano sullo schienale della sedia
  • quando deve salire in macchina, fategli posare la mano sul bordo superiore della portiera aperta
  • quando deve salire sul treno o sull'autobus, mettergli una mano sulla maniglia o il corrimano e avvisarlo del numero dei gradini o se il gradino è particolarmente alto
  • non distraete un cane guida dal suo compito con richiami/carezze
  • a tavola con un cieco spigategli cosa c'è nel piatto e qual'è la disposizione dei cibi, indicategli il bicchiere ed evitate di riempirglielo troppo
  • se dovesse perdere l'orientamento o trovarsi in un luogo sconosciuto, basta elencargli cosa gli sta davanti, dietro, a destra e a sinistra, evitando inutili "qui" e "là"
  • per un cieco l'ordine è fondamentale, ogni cosa va tenuta al suo posto e bisogna avvisarlo se qualcosa in un ambiente noto è stato spostato
  • i veicoli parcheggiati sul marciapiede rappresentano un pericoloso ostacolo per i ciechi
  • rivolgetevi a lui/lei con la massima naturalezza, senza preoccuparvi di evitare espressioni come "arrivederci"
  • in generale, chiedete se potete essergli d'aiuto e lasciate che sia lui/lei a dirvi cosa gli/le serve

PREVENZIONE

Il termine prevenzione ha due significati; esso definisce infatti sia la possibilità di ipotizzare in anticipo l'eventualità di un evento dannoso, evitando che possa accadere, sia l'essere prevenuti verso qualcosa o qualcuno, ovvero averne a priori una considerazione negativa, cioé un pregiudizio. Come è noto, i pregiudizi, che connotano negativamente qualcosa o qualcuno che ancora non si conosce, possono essere eccessivi e -è bene ricordarlo- gli eccessi di prevenzione sono anch'essi dei rischi. Si possono distinguere tre livelli di prevenzione:
  • primaria - comprende le azioni volte a diminuire l'incidenza di un evento dannoso (ad esempio una malattia) in una popolazione
  • secondaria - comprende le azioni volte a ridurre la densità e la gravità di un evento dannoso
  • terziaria - comprende tutte le azioni utili per diminuire gli effetti cronici o a lungo termine di un evento dannoso

lunedì 28 settembre 2009

ANORESSIA (tre acrostici)

ANORESSIA

I

Ansiosa assenza di morso carnale -

Noia d’essere corpo

O no: d’essere un’in-carnata essenza che (senza carne)

Raminga làtita – appassisce – soffoca - muore

E muore di non morire:

Solo spolparsi vuole – vuota di cibo - di cibo

Svuotata – magrezza delle membra - persona

Indiàta - mistica – sublimata - niente

Agognante – di niun cibo affamata

II

Anoressica mente – anoressico corpo mentre

Niente vuol crescere – vuol prendere pondo

Onerato di cibo: mangiare No!

Rifiuto sempiterno – discordia - inimicizia

E guerra senza quartiere – senz’armi – senza scampo

Se solo s’avvicina alle fauci un boccone nemico -

Se solo un piatto avanza verso labbra

Infingarde e le minaccia – le coarta

A nutrizione violenta - intollerabile

III

Anch’io (tempo remoto) titubavo – incarnavo rifiuti - dicevo

“No!” alle sorde cibarie – d’un Cibo solo mi cibavo: all’altro

Ostile m’esaltavo (zitta) nel No!

Renitente alla leva che chiamavano “vita”

E che - per burla - dichiaravano essi “maturità” – semplice sede di

Sospetti e perdite – digestiva fatica senza volo - assimilato

Sparso cibo - morte di leggerezza – fine d’ogni

Ilarità possibile senza gioco né scopo che non sia – che non fosse

Altissima pastura d’un altro Sé – se vita non vuole giocarsi.

Mariella Bettarini

venerdì 25 settembre 2009

RISVOLTI PSICOLOGICI DELLA CELIACHIA

La celiachia è una condizione geneticamente determinata, caratterizzata da intolleranza permanente al glutine di frumento e alle proteine corrispondenti di segale e orzo. Si tratta di una malattia cronica largamente diffusa in tutto il mondo con un quadro clinico e sintomatologico molto complesso che comprende numerosi disturbi soprattutto a livello intestinale. Negli ultimi anni l'interesse scientifico e non per la celiachia è cresciuto in maniera esponenziale, portando a nuovi metodi di diagnosi e cura, ma anche a una maggiore sensibilizzazione dell'opinione pubblica e una diffusione più capillare dei prodotti senza glutine. Tuttavia, le implicazioni psicologiche dell'essere celiaci vengono spesso trascurate, nonostante gli aspetti emotivi e relazionali siano di primaria importanza per il benessere di ognuno. La celiachia non è causa di disturbi psichici o psichiatrici, intendiamoci, né essere celiaci provoca automaticamente disagio. Sta di fatto però che la diagnosi di celiachia, così come tutti i cambiamenti, porta necessariamente a una riorganizzazione delle proprie abitudini e a una parziale ridefinizione di sé e del proprio universo di relazioni. Non dimentichiamoci che la celiachia è una malattia cronica, il cui impatto sulla salute delle persone, se ben diagnosticata e curata, è minimo, ma comunque irreversibile. Una volta individuata la celiachia, infatti, la dieta senza glutine (che rappresenta la principale azione di cura) dovrà essere scrupolosamente seguita per sempre, con tutti i problemi che questo comporta, primo fra tutti quello della "contaminazione". I celiaci non solo non possono ingerire alimenti che contengano glutine, ma non possono nemmeno cucinare o conservare cibo "consentito" in pentole o contenitori che sono entrati in contatto con questa sostanza. Prestare continuamente attenzione alla propria dieta e a tutti i processi di preparazione, cottura e conservazione del cibo, in casa e fuori, è un impegno mentale oneroso e pertanto stressante. E l'ignoranza di chi dice che "tanto per una volta non succede nulla" o l'insensibilità di chi non si pone nemmeno il problema di certo non aiuta. Il mio docente di psicologia generale all'università diceva che
"noi non mangiamo, noi ci alimentiamo",
intendendo con questo che l'alimentazione ha oltrepassato la necessità biologica ed è entrata a pieno titolo nella dimensione culturale, ovvero in ciò che connota e distingue i diversi gruppi umani. La dieta senza glutine, che i celiaci devono seguire a vita, condiziona non solo le loro abitudini alimentari, ma anche quelle relazionali e sociali. Il pasto, consumato in casa o fuori, è infatti un momento di convivialità e socializzazione che appartiene alle abitudini familiari o alla ritualità collettiva
(colazione al bar, aperitivi, feste, cene in ristorante, ecc.). Ad esempio, la tipica abbinata pizza e birra è deleteria per un celiaco, oppure la torta di compleanno di un amichetto o un semplice panino. Il cibo ha una valenza sociale, emotiva e simbolica molto importante e modificare la dieta significa cambiare non solo le abitudini alimentari di una persona, ma anche quelle relazionali, ecco perché la celiachia non è semplicemente una questione di dieta. La prima implicazione a livello psicologico da considerare è l'impatto emotivo della diagnosi, che, soprattutto all'inizio, può manifestarsi con:
  • inquietudine, ansia, vergogna, "sentirsi un peso"
  • irritabilità, flessione dell'umore o difficoltà a esprimere le emozioni
  • preoccupazione, non accettazione dei cambiamenti, sconforto
  • nei bambini: svogliatezza a scuola e aggressività verso i compagni
Le difficoltà di accettazione della diagnosi, con la conseguente ridefinizione di sé, possono portare a due diverse reazioni: il ritiro sociale (accompagnato da un abbassamento del tono dell'umore) e la trasgressione alla dieta senza glutine. Entrambi molto frequenti negli adolescenti (per cui convivere con la celiachia appare particolarmente problematico) sono due modi di reagire all'insofferenza di sentirsi diversi e sotto il continuo controllo dei familiari. Genitori, partners e amici giocano un ruolo fondamentale sia nella condivisione pratico-logistica che nel supporto e nella condivisione emotiva di quotidiana convivenza con la celiachia. Qualora si renda necessario l'intervento di uno psicologo, è bene rivolgersi a un professionista preparato sulle tematiche specifiche, che aiuti la persona e la sua famiglia ad accettare la malattia e ad affrontare i cambiamenti ad essa conseguenti con un sostegno psicologico mirato a contenere l'ansia, esprimere i propri vissuti e aumentare la consapevolezza di sé.

giovedì 17 settembre 2009

LIBRI DA LEGGERE

Nietzsche affermava che gli scrittori fossero i migliori esperti di psicologia ed è sicuramente innegabile il ruolo della letteratura nel raccontare sentimenti, pensieri, sogni, emozioni esplorando le profondità della nostra mente. Le letture segnalate di seguito non sono che ulteriori e recenti esempi della profondità d'indagine psicologica che scrittori e poeti non smettono di offrirci. Buona lettura.
La prima segnalazione è per "Pelle", opera prima dell'esordiente Fabrizio Demaria, appena uscita per la Libreria Editrice Urso. Si tratta di una raccolta di racconti brevi e taglienti, venti storie estreme di sofferenza, forza, umanità e follia, raccontate dall'autore (un giovane psicologo) con intensità, sentimento e profonda comprensione per la fragilità umana. La pelle del titolo è l'organo che delimita, fisicamente e psicologicamente, ciò che siamo, permettendo la distinzione tra un dentro e un fuori di noi. La sofferenza mentale rende questo confine inconsistente, come se si fosse senza pelle, o impenetrabile, come se la pelle fosse una barriera che chiude fuori il mondo. E' uscito in Italia, edito da Rizzoli, un romanzo che è diventato un caso editoriale negli Stati Uniti: "Il giorno in cui mia figlia impazzì" di Micheal Greenberg. Al centro della vicenda, basata su una storia vera, c'è il rapporto di uno scrittore newyorkese con la figlia adolescente e di come tutta la vita dei protagonisti cambi quando la ragazza inizia a soffrire di un disturbo bipolare. L'intrusione di questo "ospite inatteso" sarà l'uragano che spazza via la normalità del quotidiano e che pone al padre la sfida di capire una malattia che gli sembra incomprensibile e misteriosa. Sempre delle edizioni Rizzoli, il secondo libro che vorrei consigliare è "Dove andiamo papà?" dell'umorista francese Jean-Louis Fournier. L'autore racconta la storia autobiografica dei suoi due figli "venuti male", Mathieu e Thomas, nati a qualche anno di distanza l'uno dall'altro e presto rivelatisi incapaci di crescere, muoversi, comunicare come tutti gli altri. Con questo piccolo libro pieno d'ironia, dolcezza e crudeltà, l'autore fa piazza pulita di tabù e pregiudizi, per restituire ai suoi figli, amatissime e misteriose creature "dalla testa piena di paglia", tutta l'umanità e la dignità che spetta loro. Vorrei segnalare infine il libro "Siamo speciali" di Paola Viezzer dedicato ai più piccoli ed edito dalla Erickson. Dieci storie educative e divertenti, accompagnate da deliziose illustrazioni, con l'intento pedagogico di spiegare ai bambini temi come la cecità, la sindrome di Down, la celiachia, il diabete, la disabilità fisica, aiutandoli a capire e a non giudicare le diversità con un linguaggio semplice e la leggerezza delle fiabe.

mercoledì 16 settembre 2009

LOVE ADDICTION

Amare è come una droga: all'inizio viene la sensazione di euforia, di totale abbandono. Poi il giorno dopo vuoi di più. Non hai ancora preso il vizio, ma la sensazione ti è piaciuta e credi di poterla tenere sotto controllo. Pensi alla persona amata per due minuti e te ne dimentichi per tre ore. Ma, a poco a poco, ti abitui a quella persona e cominci a dipendere da lei in ogni cosa. Allora la pensi per tre ore e te ne dimentichi per due minuti. Se quella persona non ti è vicina, provi le stesse sensazioni dei drogati ai quali manca la droga. A quel punto, come i drogati rubano e s'umiliano per ottenere ciò di cui hanno bisogno, sei disposto a fare qualsiasi cosa per amore. Paulo Coelho
Queste parole, pronunciate dalla protagonista del romanzo "Sulla sponda del fiume Piedra mi son seduta e ho pianto", rappresentano un'amara equiparazione tra amore e dipendenza affettiva (in inglese love addiction). In realtà (e per fortuna!) c'è una bella differenza tra un sano sentimento amoroso e una patologica dipendenza affettiva. Il criterio fondamentale per operare questa distinzione è la qualità della relazione di coppia. Tanto una relazione sana agevola la crescita di sé, dona piacere, pienezza e gioia di vivere, sviluppando intimità e senso di appartenenza, tanto una patologica è invece dolorosa, umiliante, insoddisfacente e autodistruttiva. Il rapporto di dipendenza affettiva è conflittuale, segnato da incompatibilità, mancanza di rispetto e di condivisione di progetti, bisogni e desideri, ma percepito come ineluttabile. Il vissuto tipico è quello di una relazione ostile e infelice dalla quale però non sia possibile venire fuori. Si tratta di una dipendenza a tutti gli effetti accompagnata da sintomi caratteristici:
  • compulsività - c'è un bisogno impellente di vedere l'amato/a e di comunicare con lui/lei in ogni modo
  • inappetenza - mancanza di appetito, irregolarità nei pasti che può degenerare in anoressia
  • insonnia - persiste uno stato d'ansia e agitazione continua
  • ciclotimia - alternanza dell'umore tra stati d'animo opposti
  • proiezione - l'amato/a viene idealizzato/a proiettandovi i propri bisogni e aspettative
  • percezione alterata del tempo e dello spazio - la vita della persona dipendente ruota intorno al bisogno morboso di vedere o sentire di continuo l'amato/a e di conoscere tutti i posti che frequenta che può portare al controllo paranoico o allo stalking
Le dipendenze affettive riguardano uomini e donne, di orientamento omo o eterosessuale. La casistica più nota è quella femminile perché le donne fanno ricorso più facilmente a un percorso terapeutico. Uscire dalla dipendenza emotiva è possibile, grazie soprattutto alla consapevolezza e all'accettazione dei propri bisogni e al mettere al centro delle proprie relazioni la chiarezza, la spontaneità e il rispetto. Per questo può essere utile farsi aiutare da un professionista individualmente o in un gruppo di auto-mutuo-aiuto. Per saperne di più: Robin Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli, 1989

BILINGUI E' MEGLIO

E' opinione molto diffusa che l'apprendimento simultaneo di due lingue nei bambini in tenera età sia confusivo e controproducente. Non solo, ma si pensa che il bilinguismo, soprattutto nel caso di figli di coppie miste e di immigrati di seconda generazione, sia addirittura un ostacolo nell'integrazione con i coetanei che si esprimono nella lingua maggioritaria del paese di residenza. Numerosi studi di psicologi ed esperti di didattica e sviluppo del linguaggio dimostrano invece che nei primi tre anni di vita, il cervello del bambino è perfettamente in grado di assimilare senza sforzo due lingue come "lingue madri". Le immagini ottenute con la risonanza magnetica funzionale mostrano infatti che nei bambini entro i tre anni le regioni cerebrali attivate all'ascolto della lingua della famiglia e di quella del paese dove vivono sono perfettamente sovrapposte. Non solo, il bilinguismo si accompagna anche a una maggiore flessibilità, competenza comunicativa e una migliore predisposizione anche verso altri apprendimenti. Per saperne di più: Il bambino bilingue, di Barbara Abdelilah-Bauer, Raffaello Cortina editore, Milano, 2008.

ADDIO A JERVIS

Durante la pausa estiva, ed esattamente il 3 agosto, moriva a 76 anni nella sua casa romana Giovanni Jervis, uno degli esponenti più illustri della psicologia italiana. Nato a Firenze nel 1933, quando aveva solo undici anni il padre venne catturato e ucciso dai nazisti. Professore di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma dal 1977, psichiatra e psicanalista freudiano, nella sua lunga e illustre carriera Jervis aveva collaborato con personalità scientifiche di spicco come l'etnologo Ernesto De Martino e lo psichiatra Franco Basaglia. Jervis ammirava il padre dell'antipsichiatria italiana, colui che fece chiudere i manicomi, ma era assai critico sul modo in cui venne applicata la legge che ne porta il nome. Denunciò pubblicamente "il dilagare degli psicofarmaci" e degli opedali privati "sovvenzionati e non migliori di quelli pubblici" che la miope applicazione della 180 aveva prodotto, ma soprattutto le condizioni di "migliaia di persone abbandonate a loro stesse": i malati psichiatrici e le loro famiglie. Affiancò la pratica clinica e accademica ad un'intensa attività editoriale, pubblicando numerosi volumi tra i quali ricordiamo:
  • Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1975;
  • Il buon rieducatore, Feltrinelli, Milano, 1977;
  • Presenza e identità, Garzanti, Milano, 1984;
  • La psicoanalisi come esercizio critico, Garzanti, Milano, 1989;
  • Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano, 1993;
  • Sopravvivere al Millennio, Garzanti, Milano, 1996.
Da parte mia e di quanti ne studiarono l'opera e ne apprezzarono l'onestà intellettuale, l'acume clinico e la profondità umana
grazie professore.

martedì 9 giugno 2009

CHE COS'E' LO STRESS?

Che stress! Sono stressato! Questo mi stressa! Quello è stressante... stress, stress e ancora stress! Oggi se ne parla in continuazione, ma ad un uso tanto inflazionato non corrisponde un'idea chiara e diffusa di cosa sia effettivamente lo stress. Già nel 1973, Hans Seyle, considerato il "padre" del concetto di stress, commentava che
"tutti conoscono lo stress, ma nessuno sa cos'è".
La parola stress viene dal latino strictus, che significa stretto, serrato, ma è nei paesi anglosassoni che la parola stress si diffonde maggiormente, dapprima per indicare difficoltà o afflizione, per poi fissarsi nel XIX secolo sul significato di sforzo, tensione. In ambito metallurgico, ad esempio, si era soliti "mettere sotto stress" le travi di acciaio, indicando il processo di sovraccarico con il quale se ne testava la resistenza. Il termine stress viene usato spesso indistintamente per indicare:
  1. una condizione nociva d'intensa stimolazione esterna (es. stress acustico da traffico)
  2. un vissuto soggettivo in una determinata condizione (es. il sentirsi stressati)
  3. la risposta psico-biologica di una persona ad una determinata situazione.
Gli studiosi preferiscono distinguere tra:
  • stressors - gli agenti stressogeni (cioé che causano stress) ambientali (sia di natura fisica che psico-sociale)
  • strain - condizione di tensione psico-fisica in risposta agli stressors ambientali
  • strategie di coping - modalità e strategie cognitive, emotive e comportamentali con cui "reagire", affrontare e proteggersi in una condizione di strain
Occorre sottolineare che lo stress, così come l'ansia, non è di per sé una condizione patologica o dannosa per l'organismo, ma una reazione fisiologica utile e adattiva (che ci consente cioè di regolarci e trovare un adattamento migliore) che può diventare patologica se una persona è sottoposta a più agenti stressanti in maniera intensa e prolungata senza riuscire a trovare nessuna strategia difensiva. Seyle considerava lo stress qualcosa di inevitabile, perché è la condizione umana di per sé ad essere stressante. Detto in altri termini, la vita è complicata e ci mette alla prova, ci stimola ad essere sempre vigili e attivi, ma questa è la vita. La risposta fisiologica allo stress è molto complessa e coinvolge due sistemi principali:
  1. uno comprende il sistema nervoso simpatico e la parte midollare delle ghiandole surrenali che, attraverso la produzione di catecolamine, innesca reazioni di vigilanza e attivazione
  2. l'altro è l'asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che, attraverso la produzione di corticosteroidi nella parte corticale delle ghiandole surrenali, modula la risposta allo stress cronico
Per quanto la componente fisiologica sia alla base della reazione allo stress, questa reazione è mediata psicologicamente a livello cognitivo ed emozionale. Il nostro organismo, infatti, è tutt'altro che un'entità esposta in modo passivo a stimoli esterni nocivi. Gli agenti stressanti (gli stressors) si collocano all'interno della relazione organismo-ambiente, determinando la natura interattiva e dinamica del processo di stress, in cui va sempre considerata anche la capacità di adattamento degli individui. Noi siamo attivamente e costantemente impegnati in un rapporto d'interazione dinamica con il nostro ambiente, per cui nel processo di stress risulta di fondamentale importanza la capacità di appraisal, ovvero la nostra personale valutazione. A produrre stress, infatti, non è tanto uno stimolo stressante, quanto piuttosto l'esperienza che ne ha il singolo. E' lo strain, cioé il vissuto di tensione, soprattutto se prolungato nel tempo, a causare disagio e malessere, ma la tensione non è una conseguenza inevitabile dello stress, perché la nostra reazione è mediata da tanti fattori ed è legata alla nostra valutazione ed esperienza personali. In sostanza, lo stress è una risposta complessa che coinvolge una persona nella sua interezza: reazioni fisiologiche e ormonali, sensazioni, atteggiamenti, emozioni, pensieri, valutazioni, comportamenti, vissuti, attribuzioni di significato, nonché capacità di reagire (coping)e di attingere ed attivare le proprie risorse (resilienza). Ecco perché una stessa situazione può essere ritenuta stressante (e pertanto vissuta come tale) da alcune persone, ma non da altre. Un po' quello che sosteneva più di quattro secoli fa La Rochefoucauld in una delle sue massime:
"i beni e i mali che ci capitano non ci colpiscono in misura della loro grandezza, ma della nostra sensibilità"
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La psicologia al volante

Vi è mai capitato di stupirvi della diversità di atteggiamento di un vostro conoscente alla guida di un'auto? Oppure di dibattere se le donne al volante siano più pericolose degli uomini? Ebbene, sappiate che esiste uno specifico settore della psicologia che studia il comportamento delle persone in quanto automobilisti che si chiama psicologia viaria. Il traffico rappresenta una condizione nociva d'intensa stimolazione esterna e, come tale, è un'indubbia fonte di stress. Il fatto poi che ad esso di solito si abbinino altri stress urbani come l'eccessivo rumore e l'inquinamento ne potenzia l'effetto stressogeno. Il sommarsi dell'azione di vari elementi stressogeni ha effetti sul sistema endocrino e in particolare sulla produzione di corticosteroidi e a lungo andare, può anche causare alterazioni dell'umore, della pressione e del livello di colesterolo, nonché aumentare il consumo di alcol e sigarette. Per quanto riguarda invece gli stereotipi di genere sulla guida di uomini e donne, ci sono molti miti da sfatare. Primo fra tutti è i dati indicano chiaramente che, a parità di chilometri percorsi, tra maschi e femmine non ci sono differenze significative per quanto riguarda il numero di incidenti. Mentre per quanto riguarda la gravità degli incidenti le differenze sono molto significative. La stragrande maggioranza di incidenti gravi o mortali, infatti, è provocata da uomini e la prima causa è sempre l'eccesso di velocità, seguita da guida pericolosa (sorpassi azzardati, manovre non consentite, ecc.) e da guida in stato di ebbrezza e/o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. Le donne alla guida hanno invece incidenti di lieve entità (cioè che non provocano morti o feriti), dovuti per lo più a errori di distrazione, imperizia o indecisione. La lettura che la psicologia viaria dà di questi dati è che le donne in genere si sentono meno sicure al volante, hanno più paura della velocità e delle conseguenze delle loro azioni (ad esempio investire qualcuno). Di conseguenza sono più attente, più prudenti e più rispettose del codice della strada e dei limiti di velocità. Se hanno un incidente, di solito accade in percorsi conosciuti o nei dintorni della propria abitazione, nei quali è più facile "abbassare la guardia" e fare meno attenzione. Gli uomini, invece, hanno meno paura e molta più fiducia nelle loro capacità, si percepiscono molto più sicuri al volante e tendono pertanto ad avere una guida spericolata e meno rispettosa del codice stradale e, in particolare, dei limiti di velocità. A questo si aggiunge l'incoscienza del pericolo, la scarsa consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni e una percezione distorta di invulnerabilità e di "immunità dagli incidenti" che porta ad avere spesso comportamenti a rischio (come bere o assumere droghe prima di mettersi al volante) perché "tanto non capita a me". Gli uomini considerano la velocità più eccitante che pericolosa e hanno una percezione falsata della loro oggettiva capacità di controllo legata alla prontezza di riflessi, visto che il tempo di reazione è in media di 1 secondo (e tale resta a qualsiasi velocità si guidi). Inoltre è sempre tra gli uomini che si riscontrano maggiormente i casi di "recidiva", cioè di automobilisti multati più volte, o a cui è stata ritirata la patente, che continuano a ripetere le stesse infrazioni per cui sono stati sanzionati in precedenza. Alla base dei diversi comportamenti alla guida ci sono insomma atteggiamenti diversi che, è bene ricordarlo sempre, sono frutto di valutazioni cognitive personali e di variabili culturali e, come tali, modificabili. E questo è per l'appunto lo scopo della psicologia viaria a sostegno della sicurezza stradale: la prevenzione. Comunque, ora sapete perché gli uomini vanno a 200 km in autostrada e le donne rompono il fanaletto posteriore parcheggiando sotto casa!

Ma i neuroni specchio esistono o no?

La recente pubblicazione sull'autorevole rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America - Atti dell'Accademia Nazionale di Scienze degli Stati Uniti d'America) di un articolo del professor Alfonso Caramazza ha suscitato un acceso dibattito all'interno delle neuroscienze. Oggetto della controversia è la prova scientifica dell'esistenza o meno dei neuroni specchio nell'uomo. I neuroni specchio sono stati scoperti per la prima volta a metà degli anni novanta in un tipo di scimmie, i macachi, e successivamente ne è stata riscontrata la presenza in altri primati e in molte specie di mammiferi e uccelli. Dalla loro scoperta nelle scimmie, sono stati numerosissimi gli studi svolti a livello internazionale che hanno fornito evidenze a sostegno dell'esistenza di questo sistema neuronale anche negli esseri umani. L'onestà intellettuale della scienza deve essere mossa dallo scetticismo e dalla ricerca della confutazione (e non della validazione) delle ipotesi via via prodotte e in effetti c'è da dire che ad oggi la prova diretta e incontrovertibile dell'esistenza dei neuroni specchio nel cervello umano non è stata ancora prodotta. A parte il livore polemico che sembra ormai caratteristico del (mal)costume nazionale, la disputa è molto interessante sul piano scientifico e, per quanto un'evidenza a sfavore non implichi affatto automaticamente l'inesistenza dei neuroni specchio, l'autorevolezza di chi ha prodotto e pubblicato lo studio merita ulteriori approfondimenti. Per chi volesse saperne di più e farsi un'idea la rivista telematica di neuroscienze Brain Factor ha pubblicato nella sezione "Neuroscienze controverse" diversi articoli e interviste ai "contendenti" delle due fazioni: Alfonso Caramazza e Vittorio Gallese.

IL CONTRASTO E' FEMMINA!

Un ricercatore dell'Università di Harvard, Richard Russell, ha recentemente prodotto un interessante studio su come l'immagine del volto umano sia percepita rispetto all'attribuzione di genere. Nel suo esperimento il professor Russell mostrava due immagini con un volto in primissimo piano (dove non figuravano, quindi, né il collo né i capelli) che venivano puntualmente identificate da tutti i partecipanti una come l'immagine del viso di un uomo e l'altra come quella del viso di una donna. In realtà, si trattava della stessa identica immagine del medesimo volto, a cui era stata modificata l'intensità del contrasto grazie a un programma di fotoritocco. L'immagine più contrastata, nella quale quindi erano messi maggiormente in risalto i punti salienti della gestalt facciale (cioè occhi e bocca), veniva percepita come femminile, mentre quella più chiara e meno contrastata era percepita come maschile. Chissà se questa percezione della femminilità ha qualcosa a che vedere con la millenaria abitudine delle donne a truccarsi, (visto che il trucco, proprio come il contrasto della foto, mette in evidenza occhi e bocca). Certo è che, stando alle scoperte degli archeologi, i visi femminili vengono imbellettati da almeno 4.000 anni!

I neuroni specchio

Negli anni novanta è stata fatta una delle scoperte più importanti e rivoluzionarie nell'ambito delle neuroscienze. Si tratta della scoperta, tutta italiana, dei "neuroni specchio". Il professor Giacomo Rizzolatti dell'Università di Parma e la sua équipe, nel corso di esperimenti con le scimmie macaco, si sono accorti per caso che i neuroni localizzati nell'area visuo-motoria della corteccia cerebrale (cioé quelli legati al movimento) si "accendevano" sia quando la scimmia stava svolgendo un determinato compito, ma anche quando stava solamente osservando un'altra scimmia compiere quella medesima azione. Questi neuroni, dapprima chiamati "monkey see-monkey do" ("scimmia vede-scimmia fa"), sono stati ribattezzati "neuroni specchio" perché, proprio come uno specchio, quando osserviamo un'azione o l'espressione di un'emozione da parte di un'altra persona, noi generiamo automaticamente una sorta di simulazione incarnata, un "rispecchiamento" appunto, che riproduce in noi le stesse intenzioni alla base delle azioni o degli stati emotivi che stiamo osservando. Detta così sembra una cosa molto astratta, ma il sistema dei neuroni specchio non sarebbe altro che la base neurofisiologica della nostra capacità di metterci in relazione con gli altri. Da esso dipendono il comportamento sociale, la capacità di riconoscere le emozioni e di intuire le intenzioni che sottostanno alle azioni altrui, nonché l'empatia, ovvero ciò che ci permette di immedesimarci negli altri. In altre parole, dipenderebbe da questa specifica classe di neuroni se piangiamo perché la protagonista del film che stiamo guardando muore o se ci arrabbiamo perché un avversario ha fatto un fallo al nostro calciatore preferito. Questa reazione di risonanza emotiva è più significativa con gli appartenenti alla stessa specie ed è per questa ragione che, ad esempio, nei cartoni animati gli animali o i robot vengono antropomorfizzati per facilitare l'immedesimazione e la simpatia del pubblico (umano, per l'appunto). Noi osserviamo gli altri e ci rispecchiamo in loro, capiamo i loro stati d'animo e intuiamo le loro intenzioni e grazie a questi processi fondamentali siamo in grado di interagire con le altre persone in maniera appropriata e contestuale. I neuroni specchio sarebbero quindi basilari nella costruzione delle competenze sociali e potrebbero anche fornire una spiegazione biologica alle difficoltà relazionali che si riscontrano nell'autismo. L'individuazione dei neuroni specchio ha prodotto il fiorire di un gran numero di studi, suscitando enorme interesse anche tra i non adetti ai lavori. La portata innovativa di questo filone di ricerca è tale da andare ben oltre i confini delle neuroscienze o della psicologia, e da coinvolgere anche discipline come la pedagogia, la filosofia e l'arte. I neuroni specchio svolgerebbero infatti un ruolo primario nell'apprendimento per imitazione. Quando noi dobbiamo apprendere una sequenza di azioni, anche molto complesse, che si tratti di imparare un passo di danza o a suonare uno strumento, quello che chiediamo a chi ci insegna è "fammi vedere come fai". Per capire quanto sia più rapido e vantaggioso l'apprendimento per imitazione pensate al computer o al videoregistatore: quanto è più facile imparare le stesse cose vedendole semplicemente fare prima da un altro piuttosto che studiandole dal manuale! Nel dibattito filosofico, invece, i neuroni specchio portano un contributo innovativo per quanto riguarda il problema della coscienza e della teoria della mente. Ci sono tante cose che ancora non sappiamo sulla mente e la coscienza umane. Come le trasformazioni elettrochimiche del cervello producano l'incredibile varietà e complessità del nostro vissuto è il mistero più grande ed affascinante. Per riassumere potremmo dire che esistono due grandi filoni di pensiero: uno riduzionista, che ritiene che la mente è il cervello e uno non riduzionista, che ipotizza invece l'esistenza di processi psichici che mediano tra l'attività cerebrale e i dati di coscienza. Per quanto riguarda infine le discipline artistiche, i neuroni specchio renderebbero possibile la risonanza emotiva della fruizione di un'opera d'arte, dando una spiegazione scientifica a ciò che teatro, danza, letteratura, musica e pittura fanno da sempre: emozionarci. Per saperne di più sui neuroni specchio guarda questo video. Letture consigliate:
  • Rizzolatti, Sinigaglia, So quel che fai, ed. Raffaello Cortina, 2006
  • Rizzolatti, Vozza, Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale, Zanichelli, 2007
  • Iacobozzi, I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, 2008

mercoledì 13 maggio 2009

LA PREVENZIONE PSICOLOGICA NEL CICLO DI VITA III

  • PRIMA INFANZIA - i primi tre anni di vita sono fondamentali per lo sviluppo del sè. Da un punto di vista psicologico, quello che fa la differenza è il modo in cui ci si prende cura del neonato. Avendone cura, infatti, non solo si soddisfano i bisogni fisiologici del bebè (ad esempio la fame), ma soprattutto si trasmette un messaggio relazionale che incide sulla formazione del sé del bimbo. Noi impariamo e creiamo quello che siamo nelle relazioni con gli altri: è dall'essere stato toccato, accarezzato, cullato con amore che un bimbo impara cos'è l'affetto. I bambini hanno incredibili capacità ricettive, sono come delle "spugne" che assorbono tutto quello li circonda. Se un bambino respira amore, accettazione e rispetto nel suo ambiente, crescerà con fiducia e comprensione per se stesso e per gli altri. Se invece respira indifferenza, rabbia, violenza, allora crescerà triste, pieno di paure e sensi di colpa. Come esseri umani, noi nasciamo con una propensione intrinseca a relazionarci agli altri esseri umani. I neonati mostrano da subito chiare preferenze per gli stimoli sociali (voce umana, volti, carezze, ecc.). Addirittura a soli due giorni di vita sono già capaci di imitare le espressioni (come fare la lingua o sgranare gli occhi)dell'adulto che si relaziona con loro, sebbene nessun neonato di due giorni abbia la benché minima consapevolezza di avere occhi e bocca! La cosa più importante per il benessere psico-fisico dei bimbi è quindi il come ci si relaziona con loro. Per quanto riguarda l'alimentazione nei primi mesi, l'allattamento al seno è di gran lunga preferibile, sia per le proprietà ineguagliabili del latte materno, ma soprattutto perché rappresenta un'esperienza unica di grande intimità tra mamma e neonato. Pertanto l'allattamento dev'essere facilitato e incoraggiato, dando fiducia, sostegno e un aiuto pratico alle neo-mamme. La psicologia della sviluppo si è focalizzata molto sulla relazione madre-bambino, come relazione fondamentale per il benessere e lo sviluppo armonico del bebé, ma gli studi più recenti e innovativi, come ad esempio quelli della prof.ssa Fivaz dell'Università di Losanna, prendono in considerazione "il triangolo primario", ovvero la relazione a tre madre-padre-bambino. Questo approccio offre sicuramente una visione meno riduttiva dell'ambiente relazionale del bambino, per il cui benessere è importante non solo la relazione con la madre, ma anche quella con il padre. I cambiamenti socio-culturali che hanno "liberalizzato" le cure paterne ai bambini fin dalla primissima infanzia hanno infatti grandemente valorizzato la ricchezza e l'importanza del ruolo genitoriale maschile. Oltre al rapporto con madre e padre, un altro fattore determinante per il benessere infantile è la qualità della relazione tra i genitori. Quest'ultimo aspetto è molto importante e ha a che fare con il modo in cui padre e madre condividono la responsabilità genitoriale (ad esempio sostenendosi a vicenda, collaborando e partecipando attivamente per trovare soluzioni, oppure contraddicendosi e svalutandosi l'un l'altro o entrando in competizione). Ogni genitore è diverso dagli altri e ogni coppia crea insieme il proprio modo di vivere la dimensione della genitorialità. Occorre quindi pensare che non ci sono ricette pronte e valide per tutti, ma che ognuno deve costruire insieme al partner una modalità condivisa, coerente e armoniosa di rapportarsi ai figli nel ruolo del grande-che-si-prende-cura-del-piccolo. La chiarezza dei ruoli è fondamentale, soprattutto perché la relazione genitore-figlio è, per sua natura, una relazione asimmetrica. Non ci sono due persone sullo stesso piano, come nel caso di due amici, ma c'è un grande che dà e un piccolo che prende. Occorre tenere sempre a mente che ciò di cui i bambini hanno bisogno non sono genitori perfetti, ma, come diceva il famoso psicanalista inglese Donald Winnicott, "sufficientemente buoni". Ciò vuol dire che l'importante non è non commettere errori, ma sviluppare la consapevolezza e la capacità di riparare agli sbagli, rafforzando e facendo evolvere la relazione. Ricordatevi sempre che anche i genitori crescono insieme -e grazie- ai loro figli.
  • SECONDA INFANZIA - a partire dai tre anni, con la fase del "NO" e l'ulteriore sviluppo delle capacità senso-motorie, intelletive, linguistiche e relazionali, il bambino raggiunge una relativa autonomia. A quest'età si entra nella fase di sviluppo del sé narrativo, in cui cioé il bambino inizia a raccontarsi, a descriversi, a dire "io sono". Lo sviluppo infantile non è tanto il passaggio da uno stadio di crescita all'altro in tempi prefissati e uguali per tutti, ma è piuttosto, come sostiene Daniel Stern, un processo sinfonico, ovvero composto da diverse capacità che evolvono nel tempo interagendo ed influeanzandosi a vicenda in modo più o meno armonico. In particolare, lo sviluppo può essere definito come un processo olistico di cambiamento nel tempo che dipende dalle mutevoli e complesse interazioni tra fattori genetici (come la maturazione neurologica) e ambientali (quali l'apprendimento sociale, familiare e tra pari). Questo processo evolutivo si svolge in un contesto d'interazione dinamica e d'influenza reciproca tra l'organismo e l'ambiente. Dai tre ai sei anni l'importanza del gioco si fa sempre più pregnante e l'attività ludica del bambino si arricchisce con attività grafiche (dipingere, colorare, disegnare), immaginative ("facciamo finta che") e di socializzazione (gioco tra pari). Il gioco è un'attività fondamentale ed è importante che ai bambini venga lasciato il giusto tempo per dedicarcisi e che si offra loro la possibilità di variare le esperienze ludiche (giochi di movimento, di manipolazione, di esplorazione all'aria aperta). Anche lo sport a quest'età dovrebbe essere proposto come un gioco e praticato in compagnia di altri bambini, evitando forzature e spinte alla competizione. La curiosità è il motore dell'intelligenza e pertanto non dev'essere ostacolata. I bimbi sono spontaneamente curiosi di tutto ciò che li circonda, ma soprattutto sono curiosi di loro stessi, del loro corpo, di come sono fatti. Non c'è niente di malizioso, morboso né tantomeno perverso nel loro naturale desiderio di conoscersi, guardando, giocando e manipolando il proprio corpo. Tra i tre e i quattro anni i bambini iniziano inoltre ad acquisire il senso dell'identità di genere (a considerarsi cioé femmine o maschi) ed è perciò molto importante permettere loro la conoscenza e l'esplorazione del proprio corpo valorizzando in egual misura il sesso di appartenza del bambino o della bambina. Una corretta educazione sessuale ed affettiva parte proprio dal sostegno genitoriale a questo importante processo evolutivo di scoprirsi e riconoscersi maschietto o femminuccia. Per quanto spesso i genitori tendano a rimandare l'educazione affettiva e sessuale dei loro figli, in questo frangente prima s'inizia e meglio è. Insegnare ai bimbi a conoscere, amare e rispettare il proprio corpo senza vergognarsene, è di basilare importanza per il rispetto di sé. Naturalmente le informazioni e il linguaggio utilizzato devono essere appropriati all'età e alle domande dei bambini. L'educazione affettiva dei maschi è un aspetto molto trascurato dall'educazione tradizionale, ma merita un'attenzione particolare perché è la migliore forma di prevenzione contro possibili futuri comportamenti violenti (es. bullismo) oltre che lo sviluppo di disturbi psico-somatici e relazionali. Per quanto riguarda l'educazione affettiva e sessuale, genitori, nonni e insegnanti devono fare molta attenzione a non cadere in pregiudizi limitanti la libera e spontanea espressione di sé. Ad esempio, dicendo "i maschi non devono aver paura" si fa sentire "sbagliato" un bambino spaventato, colpevolizzandolo perché sente quel che sente, quando invece è perfettamente normale che i bimbi - maschi e femmine- abbiano delle paure. Sicuramente è molto più utile insegnare ai bambini a riconoscere le proprie emozioni e ad affrontare le proprie paure, dando loro affetto, sostegno e soprattutto il buon esempio. Il genitore triste o arrabbiato che, per non farlo preoccupare, dice al figlio "sto benissimo", in realtà dicendo così lo sta ingannando e confondendo, oltre a far passare il messaggio implicito che la rabbia o la tristezza sono innominabili persino con le persone più care. Ammettere il proprio stato d'animo in modo pacato, dicendo semplicemente "sì, è vero oggi sono un po' triste, capita anche ai grandi, ma dopo un po' mi passa" è molto più educativo e rasserenante. Anche perché i bambini sono molto sensibili e capaci di capire molto più di quanto gli adulti siano propensi a credere. I bambini sono sinceri e affamati di verità: se avete un'odore sgradevole vi diranno che puzzate, se avete una gamba di legno non faranno finta di niente, ma vi chiederanno incuriositi "e quella vera dove l'hai messa?". I genitori sono il primo specchio dei figli ed è dal loro modo di essere, ancora più che dalle loro parole che i bambini imparano a strutturare i propri vissuti e ad attribuire significati all'esperienza e al mondo che li circonda. La relazione deve sempre partire dal rispetto e dal riconoscimento delle emozioni, della realtà, dell'altro. Altrimenti si rischia di manipolare, mistificare, confondere. Il bambino sarà anche piccolo, ma è una persona e come tale va ascoltata e rispettata nei suoi bisogni e nelle sue emozioni. I disturbi comportamentali nell'infanzia emergono spesso nei momenti di crisi (inserimento a scuola, trasloco, nascita di un fratellino, ecc.) e sono sempre sintomatici di un disturbo relazionale. I bambini vivono ed esprimono le emozioni con tutto il corpo e quindi il corpo diventa il canale per esprimere e comunicare un disagio. I disturbi comportamentali infantili vengono definiti come la perdita parziale di una capacità acquisita in precedenza. Hanno quindi una valenza regressiva (esprimono cioè il bisogno del bambino di non crescere e di sentirsi piccolo per essere protetto e amato). I più frequenti sono: enuresi (la perdita involontaria dell'urina in bambini che hanno già acquisito il controllo sfinterico), che può essere notturna ("fare la pipì a letto") e diurna, encopresi (perdita del controllo dello sfintere anale con ritenzione fecale alternata all'emissione involontaria delle feci), onicofagia ("mangiarsi le unghie"), succhiarsi il pollice in bambini maggiori di 2-3 anni, balbuzie (disturbo nel ritmo di emissione del linguaggio con la ripetizione di alcune sillabe) in età scolare, iperattività associata a turbolenza e deficit dell'attenzione, anoressia (disturbo del comportamento alimentare che si manifesta nel rifiuto del cibo). Di questi, l'enuresi, l'onicofagia e la suzione del pollice sono i disturbi più frequenti e meno gravi, che si risolvono mostrando tolleranza e comprensione al bambino che fa la pipì a letto, evitando rimproveri e umiliazioni; fornendo al bimbo che si mangia le unghie una valvola di sfogo per esprimere la sua aggressività e a quello che si succhia il pollice più attenzione, affetto e comprensione. La balbuzie nei bambini dai 6 anni in su è determinata quasi sempre da difficoltà psicologiche come ansia, insicurezza e iperemotività e si cura abbinando a un intervento psicoterapeutico la logopedia. Nei casi invece d'instabilità psicomotoria, encopresi e enuresi, soprattutto diurna, in bambini già grandi è bene rivolgersi a uno specialista per una psicoterapia che coinvolga anche la famiglia. L'anoressia nervosa è un disturbo abbastanza raro nella prima infanzia. Quando si presenta in un neonato o dopo lo svezzamento, è sempre consigliabile chiedere un consulto specialistico sia ostetrico e/o pediatrico che psicologico. In casi così precoci l'intervento psicoterapeutico è rivolto alla madre o alla coppia genitoriale anziché al bambino.

LA PREVENZIONE PSICOLOGICA NEL CICLO DI VITA II

  • NASCITA - aver trascorso una gravidanza senza complicazioni, aver ricevuto le necessarie informazioni e rassicurazioni, oltre alla conoscenza delle persone e del luogo dove si svolgerà il parto, predispongono la donna a vivere questa esperienza in modo più positivo. Inoltre, bisognerebbe scegliere un parto più dolce possibile per il nascituro, evitando luci e rumori troppo forti, sbalzi di temperatura eccessivi, azioni brusche e soprattutto il distacco troppo immediato dalla madre. A questo proposito è sempre più diffusa la pratica del "bonding", ovvero il mettere subito il neonato a contatto con la mamma. Sarebbe ideale far passare una mezz'ora prima di tagliare il cordone ombelicale per dare il tempo fisiologico al passaggio dalla respirazione ombelicale a quella polmonare. Il travaglio in acqua aiuta il rilassamento muscolare e il parto in acqua ha sicuramente il beneficio di eliminare lo shock termico del parto tradizionale. Il parto attivo viene considerato la tipologia ideale dalla moderna ostetricia perché, riducendo il tempo e la fatica della fase esplulsiva e il conseguente rischio di complicazioni e lacerazioni, è meno traumatico sia per il bambino che per la partoriente. Un caso particolare è quello dei bimbi prematuri o che per qualche malattia devono restare in incubatrice. E' fondamentale che ricevano adeguati stimoli (carezze, parole dolci, ecc.) dai genitori e dal personale ospedaliero e che non siano lasciati in uno stato di isolamento e deprivazione psicosensoriale e affettiva, che non solo rappresenta un rischio per il loro benessere psicologico, ma che ne rallenta e ne ostacola la guarigione.